Chiariamo subito: non sono un tifoso.
Il Napoli incominciai a seguirlo all'epoca di Maradona e SOLO perché mi piaceva da impazzire El Pibe de Oro (il Caravaggio del calcio, capace di scompigliare ogni regola e di trasformare un gol di pugno contro la nazionale inglese in un gesto sospeso tra arte e politica ).
In seguito ho continuato a guardarne le partite e a simpatizzare per la squadra, ma solo perché sono partenopeo e perché - nonostante tra i ranghi della tifoseria, qui come altrove, si annidino i soliti disadattati da ospedale psichiatrico - il tessuto sano della città ha, per vari motivi (sociali, politici, economici, ecc.), sempre tratto beneficio da un Napoli vincente.
Però, lo ripeto, non mi sento un tifoso: un tifoso sta male se la squadra del cuore perde una partita o, peggio, va male in campionato. Io no.
Un tifoso parla sempre, in ogni frangente, di mercato, di giocatori, di tattiche, di squadre avversarie, di presidenti, di allenatori. Io no.
Un tifoso elargisce sfottò e s'incazza se li riceve, mentre, al contempo, elegge la Juventus a qualcosa che sta a metà strada tra l'Impero Sith di Guerre Stellari e la Cospirazione di X-Files. Io no.
Non ho mai fatto uso di alcolici, di droghe o di tabacco. Ho sempre amato il logos razionale, la bellezza del dato oggettivo. E il tifo ti pone agli antipodi: ti fa star male, ti rende tutt'altro che sereno nei confronti della realtà, ti fa inventare tutte le giustifiche e le assoluzioni del caso, tutte le accuse e le jatture del caso. E' un collettore di paranoia
Il mondo del tifo mi attrae in chiave psicanalitica. Mi piace tantissimo Febbre a 90°, il film di David Evans tratto dall'omonimo romanzo di Nick Hornby, perché è in tal senso illuminante: l'attaccamento sfegatato a una squadra di calcio compensa le tue frustrazioni personali surrogandole in qualcos'altro.
E a ben vedere anche le eventuali "ingiustizie" (dagli episodi sfortunati agli errori arbitrali) che possono condizionare una partita fanno parte di questa messinscena, perché trasformano un match agonistico nella rappresentazione dell'esistenza.
Un rigore negato o un rigore malamente assegnato, un gol in fuorigioco o un'azione regolare bloccata dall'arbitro, ecc., corrispondono a un lavoro perduto, a una malattia che chissà perché ha colpito noi o qualche nostro congiunto, al caso che ha voluto che non raggiungessimo un obiettivo per quanto meritato.
Fatta questa lunga ma necessaria premessa, mi piace dire che a me il progetto De Laurentiis piace perché basato su un'idea imprenditoriale assolutamente riconoscibile e inedita nel capoluogo campano.
Chi critica - spesso con inaudita ferocia - De Laurentiis non si rende conto del contesto sociale, politico ed economico nel quale l'attuale presidente del Napoli Calcio è andato a piantare le sue tende. Una realtà disastrata, piena di condizionamenti di ogni tipo, in cui riuscire a fare impresa è spesso un miracolo.
De Laurentiis ha un progetto e si vede: ragiona a livello internazionale, si è riappropriato finalmente di un merchandising che era stato da sempre - una cosa assurda - appannaggio degli abusivi, sogna un Napoli Stadium dove le famiglie possano andare a pranzare o a cenare in ristoranti con vista sul terreno di gioco.
Dopo aver traghettato la squadra fuori da abissi oscuri, gli ha ridato grinta e dignità, anche grazie a un allenatore sanguigno come Mazzarri - poi sostituito, a ragione, da un più blasonato e concreto Rafael Benitez - e a giovani giocatori di talento come Hamsik, Lavezzi, Cavani, Insigne.
Società come Milan, Inter e Juventus sono ormai strutturatissime. Progettano e fanno imprenditoria da decenni poggiando su fondamenta economiche e territoriali solidissime. Sono granitiche di natura, possiedono certificate attitudini pianificatrici.
Il Napoli Soccer fino a poco tempo fa era, invece, un teatro dell'improvvisazione dove, di tanto in tanto, un Ferlaino poteva pescare il jolly e sbancare a sorpresa il casinò.
De Laurentiis è giunto dove prima c'era il deserto, recuperando il Napoli dalla serie C e riportandolo dopo vent'anni in Champions League, allenato oggi da Benitez e con gli ex attaccanti del Real Madrid (rimpianti dalla tifoseria madrilena) in prima linea. Un Napoli che non infilava una scia così positiva di risultati dall'epoca di Maradona.
Forse è per tutti questi motivi messi insieme che da non-tifoso mi è piaciuto assai un curioso libricino tascabile venduto a un prezzo irrisorio. Una sorta di atto d'amore che, a prima vista, sembrerebbe un
instant book concepito per spillare soldi ai fanatici del Napoli, ma che, a ben
guardare, dietro il furbo titolo, dietro la copertina coi colori sociali della
squadra partenopea, cela un contenuto pregno di una sorprendente profondità.
Del resto, #chevisietepersi: Il manuale di chi tifa Napoli (con un hashtag
che rimanda allo striscione che comparve davanti al cimitero di Poggioreale
quando la squadra cittadina conquistò il primo scudetto) nasce sotto l’egida
della Fandango Libri, un’etichetta che ha sempre saputo coniugare le scelte
mainstream con la qualità. E non importa che la casa editrice capitolina abbia
contemporaneamente lanciato in libreria altri tre libelli omologhi (#amala: Il
manuale di chi tifa Inter, #daje: Il manuale di chi tifa Roma e #sulcampo:
Il manuale di chi tifa Juve): firme come quelle di Nicola Mirenzi, Johnny
Palomba e Massimo Zampini, dotate di verve e ironia, attestano l’onestà di
un’operazione compiuta senza l’intento di rifilare aria fritta ai lettori.
Dietro #chevisietepersi c’è lo
zampino di Boris Sollazzo, giornalista di cinema, politica e sport,
commentatore di Radio Rock e Radio 24, nato e vissuto a Roma, ma divenuto
tifosissimo del Napoli al seguito del padre sannita. Nel suo pamphlet (144 pagine,
€ 5,90), Sollazzo, con mossa intelligente e istinto viscerale, evita di
concentrarsi sulle glorie famose del Napoli, preferendo puntare l’attenzione
sul significato che per il tifoso partenopeo rivestivano le vittorie della
squadra quando, all’inizio degli anni Duemila, si ritrovava a militare in serie
C1 o nel campionato cadetto.
Ferme restando, quindi, l’aura
divina attribuita a Maradona, la glorificazione della Ma.Gi.Ca e l’esaltazione
della storia recente con Lavezzi, Cavani e Hamsik, le pagine di #chevisietepersi preferiscono puntare l’attenzione su Gianluca Grava
(descritto come un modello cristologico), sull’amore incondizionato per
Cristiano Lucarelli (che nel libro viene intervistato), sulle lodi per Edy Reja
e Giuseppe Bruscolotti (anch’essi presenti con le loro testimonianze).
Prendendo a modello il Nick
Hornby di Febbre a 90° e il Ken Loach del film Il mio amico Eric,
Sollazzo descrive la vita del tifoso napoletano come una parabola in cui le
sofferenze derivanti da una passione troppo spesso tradita dai risultati, sanno
transustanziarsi in una fucina di legami d’amicizia e in un monumento elevato
alla dignità di un intero popolo. Per questo lo scrittore individua due dei
massimi traguardi del Napoli non nella conquista degli scudetti o della Coppa
Uefa, ma nella vittoria in Coppa Italia contro la Juventus nel maggio 2012 (il
primo trofeo dopo una ventennale traversata del deserto) e, soprattutto, nel
ritorno in serie A sancito dal pareggio in casa del Genoa nel giugno 2007. In quell’occasione,
ricorda con commozione Sollazzo, il calcio seppe trasformarsi nel riscatto di
un’intera città. Quella Genova che non era riuscita ancora a farsi una ragione
del disastro del G8 del 2001, parve, infatti, trovare nel gemellaggio coi
tifosi napoletani una via d’uscita dal lustro di oscurità in cui era piombata.
Condito di gustosi interventi (da
parte degli attori Silvio Orlando e Francesco Brandi, del pugile Clemente
Russo, del produttore Nicola Giuliano, ecc.), con un’appendice dedicata ai giocatori
più oscuri e spesso giustamente vituperati del Napoli (il difensore Prunier
viene descritto come un’oscura leggenda capace di spaventare ancora oggi i
bambini), #chevisietepersi rappresenta una piccola gemma in grado di donare
calore e risate.
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