Frutto di una coproduzione tra Francia, Germania, Italia e Repubblica Ceca, I Borgia - serie TV trasmessa nel nostro Paese da Sky Cinema 1 - è arrivata, non senza affanni narrativi e produttivi, alla sua seconda stagione.
Creata da un team americano che vede ai primi posti i veterani Tom Fontana (sceneggiatore newyorchese che può vantare script per serial diversi, importanti serial statunitensi) e Barry Levinson (regista cinematografico famoso per film di successo come Rain Man, Good morning, Vietnam, Bugsy, Sleepless e il recente, orrorifico The bay, nonché serie TV di culto come Oz e Copper), I Borgia si era presentata bene, con una prima stagione che, pur senza far gridare al miracolo, si era distinta per il modo in cui era riuscita a integrare verità storica e licenze connesse a ragioni di entertainment senza cadere nell'inammissibile o nel pacchiano.
Con un occhio alle serie più crude e realistiche dell'americana HBO - I Soprano, Roma e Boardwalk Empire, in particolare - I Borgia aveva messo in campo gli intrighi, i crimini e le paturnie dell'immorale papa Alessandro VI e dei suoi degni figli: il feroce Giovanni, il tormentato e ambizioso Cesare e l'ambigua Lucrezia. Una famiglia ritratta come un'associazione a delinquere, dedita alla conquista dell'Italia e dell'Europa attraverso una "scalata al vertice" dinastica e guerrafondaia.
Stile crudo, situazioni scabrose, sesso selvaggio e sangue a volontà l'avevano fatta da padrone, anche se il tutto era fin dall'inizio apparso soffocato da una regia troppo statica e da excursus informativi degni di una puntata di Ulisse. Poco male, comunque, perché un certo equilibrio formale e narrativo riusciva a mantenere desta l'attenzione dello spettatore.
Stile crudo, situazioni scabrose, sesso selvaggio e sangue a volontà l'avevano fatta da padrone, anche se il tutto era fin dall'inizio apparso soffocato da una regia troppo statica e da excursus informativi degni di una puntata di Ulisse. Poco male, comunque, perché un certo equilibrio formale e narrativo riusciva a mantenere desta l'attenzione dello spettatore.
Cosa che non è avvenuta affatto in questa seconda stagione, contraddistinta da regie letteralmente imbalsamate (al confronto, Il Trono di Spade è girato da un epigono di Michael Bay), location poverissime (i set, interni ed esterni, si possono contare sulle dita delle mani), trame ripetitive e inserti didascalici degni di una qualsiasi fiction televisiva di Rai 1.
Poco più che diligenti, poi, le interpretazioni degli attori. con l'americano John Doman (papa Rodrigo Borgia) a guidare un gruppo in cui si distingue solo il nord-irlandese Mark Ryder (Cesare Borgia), perfettamente in parte e sufficientemente volenteroso nel tentativo di far trasparire alfine delle emozioni vere da un volto potenzialmente monocorde.
Un peccato, perché è solo nell'ultimo paio di puntate che l'azione sembra smuoversi con l'inserimento - tra l'altro - di un Michelangelo e di un Leonardo Da Vinci tratteggiati con piacevole piglio "weirdo", mentre in precedenza, la vicenda centrale di fra Girolamo Savonarola - interpretato dal valente scozzese Iain Glen - era stata affrontata senza il sufficiente nerbo.
Un peccato, perché da uno sforzo produttivo internazionale di tale levatura, al servizio di scrittori, produttori e registi certamente non di secondo piano, ci si doveva aspettare ben altro, dal punto di vista della resa finale: un kolossal e non una telenovela.
Un peccato, perché da uno sforzo produttivo internazionale di tale levatura, al servizio di scrittori, produttori e registi certamente non di secondo piano, ci si doveva aspettare ben altro, dal punto di vista della resa finale: un kolossal e non una telenovela.
Assai meglio, a questo punto, la grottesca e surreale ricostruzione a fumetti di Alejandro Jodorowsy e Milo Manara - I Borgia - recentemente ristampata sul terzo volume della collana "Manara: Maestro dell'eros", prodotta da Panini Comics e venduta in allegato al Corriere della Sera o alla Gazzetta dello Sport.
Tutt'altro discorso per la serie Strike Back - Senza regole, prodotta dalla rete TV via cavo americana Cinemax (in Italia viene trasmessa in anteprima nazionale sul canale Sky Uno) e tratta dalla serie di romanzi scritti dall'ex militare Chris Ryan.
Fin dalla sua seconda stagione - la prima, più drammatica e psicologica, era stata prodotta dalla britannica Sky Broadcasting ed era interpretata dal Richard Armitage de Lo Hobbit e dall'Andrew Lincoln di The walking dead - Strike Back si era rivelata una sorpresa che aveva saputo rincuorare gli orfani di 24 e di Jack Bauer: un action irruento e sanguigno, graziato da trame movimentate, da regie e montaggi dinamici, da location esotiche assai ben ricostruite, da una colonna sonora impetuosa (i titoli di testa con Short Change Hero di The Heavy sono irresistibili) e da interpretazioni massicce, assolutamente all'altezza della situazione.
Strike Back sembrava una spy-story d'azione immaginata da un Tom Clancy meno monolitico e avulso da connotazioni destrorse; un'opera di entertainment intelligente che sapeva parlare di problematiche terroristiche internazionali senza scadere in facili retoriche, sfiorando con eleganza il politicamente scorretto e ponendo al centro del racconto sparatorie, sesso spinto e colpi di scena come nella migliore e più intrigante narrativa pulp.
Tutto quello di cui c'era bisogno, insomma, per trasformare i protagonisti, il sergente inglese della SAS Michael Stonebridge - interpretato dall'americano Philip Winchester - e l'ex-Delta Force Damian Scott - incarnato dall'australiano Sullivan Stapleton, visto nel noir di culto Animal Kingdom - in due beniamini del pubblico: rigido, razionale e metodico l'uno; irregolare, guascone, scopatore e puttaniere l'altro.
Project Dawn - questo il titolo della seconda stagione di Strike Back - si era, insomma, rivelata perfetta sotto tutti i punti di vista. E anche la terza - intitolata Vengeance - seppure più sfilacciata e sfocata rispetto alla precedente, si era comunque mantenuta all'altezza delle aspettative, con alcuni episodi di assoluto rilievo.
Tuttavia i dubbi sorti con Vengeance sono stati fugati dalla quarta stagione - Shadow Warfare - in cui gli autori sono tornati a shakerare un cocktail fatto di ritmi indiavolati, intrighi e fantapolitica riuscendo a inserirvi con grande scioltezza e padronanza del genere nuovi elementi d'interesse: una fase iniziale che segue due distinte azioni in due parti diverse del mondo (Colombia e Libano) per poi spostarsi nell'Europa dell'Est, in Ungheria; dilemmi morali rinnovati; organizzazioni criminali e/o terroristiche arabe, sudamericane, russe e irlandesi; un paio di villain grotteschi e violentissimi; una morte eccellente e imprevista; scene d'azione e inseguimenti che farebbero la felicità di un William Friedkin o di un Michael Mann.
Considerando che I Borgia può vantare un budget stratosferico (circa due milioni di euro a puntata), vale a dire il doppio rispetto a Strike Back, è inevitabile porsi degli interrogativi su quanto la volontà di innovare un medium travalichi le questioni economiche e di target.
I Borgia e Strike Back si rivolgono potenzialmente a una fascia di fruitori assai simile - nascono, oltretutto, entrambe per le premium cable - alla ricerca di storie sostanziose e svincolate dalle limitazioni censorie di molti network in chiaro. Ma la prima è ancorata a un linguaggio antiquato e sterile, mentre la seconda guarda ai kolossal cinematografici della saga di Jason Bourne senza lasciarsi condizionare dalle ristrettezze del piccolo schermo.
Project Dawn - questo il titolo della seconda stagione di Strike Back - si era, insomma, rivelata perfetta sotto tutti i punti di vista. E anche la terza - intitolata Vengeance - seppure più sfilacciata e sfocata rispetto alla precedente, si era comunque mantenuta all'altezza delle aspettative, con alcuni episodi di assoluto rilievo.
Tuttavia i dubbi sorti con Vengeance sono stati fugati dalla quarta stagione - Shadow Warfare - in cui gli autori sono tornati a shakerare un cocktail fatto di ritmi indiavolati, intrighi e fantapolitica riuscendo a inserirvi con grande scioltezza e padronanza del genere nuovi elementi d'interesse: una fase iniziale che segue due distinte azioni in due parti diverse del mondo (Colombia e Libano) per poi spostarsi nell'Europa dell'Est, in Ungheria; dilemmi morali rinnovati; organizzazioni criminali e/o terroristiche arabe, sudamericane, russe e irlandesi; un paio di villain grotteschi e violentissimi; una morte eccellente e imprevista; scene d'azione e inseguimenti che farebbero la felicità di un William Friedkin o di un Michael Mann.
Considerando che I Borgia può vantare un budget stratosferico (circa due milioni di euro a puntata), vale a dire il doppio rispetto a Strike Back, è inevitabile porsi degli interrogativi su quanto la volontà di innovare un medium travalichi le questioni economiche e di target.
I Borgia e Strike Back si rivolgono potenzialmente a una fascia di fruitori assai simile - nascono, oltretutto, entrambe per le premium cable - alla ricerca di storie sostanziose e svincolate dalle limitazioni censorie di molti network in chiaro. Ma la prima è ancorata a un linguaggio antiquato e sterile, mentre la seconda guarda ai kolossal cinematografici della saga di Jason Bourne senza lasciarsi condizionare dalle ristrettezze del piccolo schermo.
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