25 apr 2007

Luce radente

Anche il posto più squallido del mondo può riflettere sentimenti sublimi e magia.

Quando penso a una vita perfetta, penso a una passeggiata domenicale lungo una strada di periferia dominata da anonime palazzine proletarie, nell'ora del tramonto, quando la luce radente del sole dona vibrazioni musicali anche ai bidoni della spazzatura.



Loro sono i Massive Attack - gruppo di Bristol che ha condizionato le tendenze sonore dello scorso decennio. La canzone - Unfinished Sympathy - è una delle più connotative degli anni Novanta. Il video invece è uno dei più belli di ogni tempo: un unico piano sequenza a simboleggiare l'assurda, orribile, meravigliosa esistenza umana. Il poeta crepuscolare Guido Gozzano l'avrebbe adorato alla follia.
Godetevelo.

21 apr 2007

Happy hour post-industriale

Un tardo pomeriggio assolato, delle palme, il caldo, un paesaggio dominato da una fabbrica cadente o da una serie di padiglioni industriali in disuso, un cafè costruito in riva al mare all'interno di una tensostruttura in alluminio anodizzato, figure geometriche squadrate e futuristiche (come al ristorante Georges, sul roof del Centre Pompidou a Parigi), vetrate, persone anoressiche e silenziose sedute a tavolini metallici che bevono long drinks analcolici ghiacciati, aria condizionata, l'ozono che urla di dolore.

L'aperitivo ideale, definitivo, con una leggera musica di sottofondo, come questa:



Loro sono gli Zoot Woman, autori di un pop sintetico ed evanescente, lounge fino allo sfinimento. Potreste ascoltarli su un volo Air France mentre una gentile hostess con indosso un tailleur blu vi mostra - rivolgendovi uno stupendo sorriso plastificato - la vostra poltroncina accanto al finestrino.

16 apr 2007

In Utero


No, si rassegnino i fan dei Nirvana: trattasi di titolo civetta per parlare d'altro.

Il mese di aprile coincide da sempre col mio nadir psicofisico annuale. E' un momento strano, di totale mancanza di sincronizzazione col resto del mondo.

Ad aprile tutti i miei fantasmi, i miei fallimenti, le mie cose non riuscite, le mie strade perdute, mi si affastellano nell'anima e nel cervello e - condensandosi in un'unica spugnetta abrasiva - cancellano dalla mia memoria tutte le (molte) cose filate invece per il verso giusto e positive che hanno contraddistinto la mia vita.

Ad aprile penso spesso a una mia ipotetica vita lontano da Castellammare, a quello che avrei potuto raggiungere lontano da qui. Un interrogativo che mi percuote le meningi esattamente per un mese.

Poi, una volta iniziata la "trentina" di maggio, resetto in qualche modo la mia condizione esistenziale e penso che mai e poi mai me ne sarei potuto andare da questo posto.

La "colpa"? La colpa è del mare, di questa inquieta distesa di acqua salata che mi mantiene in un latente stato di ipnosi.

E' difficile abbandonare il mare. E' difficile abbandonare il sud, le sue temperature, la sua indolenza.
In Sud corrisponde a un tempo immobile, a una vita che procede languida in un'atmosfera di calore e di dramma.

Non è un caso che il mio scrittore preferito sia James G. Ballard.
Chi ha letto il suo ciclo di racconti ambientato nella fittizia cittadina di Vermilion Sands, comprenderà perfettamente ciò che adesso sto cercando di descrivere.

Vermilion Sands è il corrispettivo di una deriva umana, dove il tempo è arenato e la vita procede nell'alienazione dei pensieri e dei sensi. E' un universo artistico dove la bellezza coincide con le debolezze psicanalitiche e improvvise esplosioni di follia e tragedia.



A Vermilion Sands tutto sembra condensarsi in un tardo pomeriggio estivo, precluso a ogni attività, ovattato, circoscritto da una cappa di calore, sabbia e polvere.

Impossibile resistere a un luogo del genere. Impossibile pensare di andare altrove, di sfuggire a questa dolce, sottile angoscia che ti attanaglia.

La sabbia e il mare, le mura bianche calcinate dal sole e la violenza repressa di un popolo che gira all'infinito intorno alle sue psicopoatologie. Il fascino di un mondo alieno che rifiuta efficienza, razionalità, linee rette.

Il mare come l'utero al quale tutti quanti, incosciamente, vorremmo ritornare.
La spiaggia e la sabbia per seppellirci i nostri desideri fallaci.
La violenza per ricordarci che la civiltà è una conquista aleatoria.

11 apr 2007

Come ti muovi, così sbagli

Il serial televisivo 24 è straordinario per motivi che a volte non è facile sviscerare.

Ciò che immediatamente salta all’occhio dello spettatore più smaliziato è l’ottimizzazione dei più abusati luoghi comuni dell’avventura seriale: decenni di narrativa d’appendice raffinata e sintetizzata per il nuovo secolo.

C’è, poi, l’addensamento vorticoso del tempo e dello spazio che ben coglie la velocità e le urgenze di un’epoca segnata e – per certi versi – devastata dallo spettacolo e dall’informazione in real time.

C’è un gran lavoro di sceneggiatura, una conoscenza spaventosa delle regole sintattiche televisive e cinematografiche, interpretazioni mai sopra le righe in sequenze quasi sempre sopra le righe, una soundtrack che – con l’evolversi delle stagioni – diventa sempre più presente e incalzante.

Ma ci sono anche cose situate talmente in primo piano da apparire di fatto – e a torto – defilate, marginali.

Il cicalio del sistema di comunicazione interno al CTU, per esempio, che segna le iterazioni e i cambi di mano di un gruppo che non agisce per niente come un’unità antiterrorismo ma piuttosto come una mega-ditta impegnata a resistere al tentativo di acquisizione ostile da parte di una qualche aggressiva multinazionale.


In 24 non esistono agenti segreti, ma è presente l’intero universo dei colletti bianchi trasportato in una dimensione spionistica, votata all’azione, che si riconosce in un unico eroe.

I veri interlocutori dell’eroico Jack Bauer sono gli impiegati di banca, gli addetti agli sportelli degli uffici postali, i segretari amministrativi dei plessi scolastici. E la finalizzazione dell’impresa passa attraverso la trafila delle dinamiche aziendali occulte e palesi: carrierismo, ambizioni personali, correttezza e/o scorrettezza professionale, invidie, gelosie, ripicche, equivoci, scambi di favori, nevrosi, fedeltà e/o infedeltà, doppi giochi, errori, successi, sacrifici, ecc.

In 24 i fantasmi del World Trade Center e l’esercito infinito di persone che combattono ogni giorno la quotidianità e le paure contemporanee, si ritrovano in una spettacolare epifania, in una rappresentazione catartica che riesce a recuperare anche quella che è una profonda caratteristica delle tragedie greche rielaborata in salsa popular, ovvero: come ti muovi, così sbagli.

Non esiste azione positiva alla quale non corrisponda immediatamente una conseguenza negativa.

Devi impedire il rilascio di un virus nel centro di Los Angeles? Ti tocca sparare in testa a un collega, giustiziandolo.

Devi salvare la vita a qualcuno? Automaticamente ti fai sfuggire dalle mani un terrorista che se ne va ad ammazzare centinaia di persone.

Sventi un complotto governativo? Perdi la donna che ami.

Devi salvaguardare a tutti i costi la custodia di un prigioniero? Un tuo amico ci rimette la pelle.

Ti fidi di una persona? Prima o poi ti tradirà e/o morirà e/o sarà costretta a operare contro di te.

Vieni a capo di una minaccia? E’ la punta di un iceberg che rinvia a una minaccia ancora più elevata.

Sei un eroe? Ti martirizzano e ti bistrattano come se fossi Cristo in croce.

24 non appare, quindi, come un semplice telefilm: è la cristallizazione di uno zeitgeist, la messa in scena drammatizzata dello scacco esistenziale che domina i nostri tempi: ogni scelta è possibile, nessuna scelta è giusta. Esistenzialismo sartriano allo stato brado.

E’ la logica che informa anche una delle saghe cinematografiche di maggior successo dell’ultimo lustro, quella di Saw – l’enigmista, dove la possibilità di scegliere il proprio destino costituisce sempre e comunque l’anticamera di un orrore indicibile, spettro di un’impasse epocale, di un’ansia schiacciante, di un tremore globalizzato.

E’ questa inquietudine generalizzata ha saputo ben coglierla – come al solito – anche il mondo della pubblicità.
Ci avete fatto caso? I messaggi pubblicitari non sono più “a senso unico”, non veicolano più dati di fatto, non ti guidano lungo la strada maestra.
Il prodotto non è il fine del messaggio, ma il brand esclusivo che ti accompagna in un mare infinito di scelte, giuste o sbagliate che siano (più sbagliate che giuste).

La Mini guidata dal genio Eugenio non risolve la tua vita, ma ti traghetta in un mondo di azioni pazze e insondabili, tragiche e divertenti insieme.


La birra Beck's non è il tuo feticcio, ma una bevanda che ti segue nella vita che ti stai creando rendendola magari piacevole pur senza influire su di essa.

Perché alla fin fine – come affermerebbero i comici Greg e Lillo – sono proprio, sempre, solo e soltanto cazzi tuoi.

La vignetta iniziale è tratta dal sito serialtv.it

4 apr 2007

la faccia scoppiata


A Napoli continuano a volare pallottole e i corpi cadono pesanti sull’asfalto delle strade come sacchetti di segatura. Ieri un altro morto e un altro ferito grave nel bel mezzo del Rione Traiano, zona nord-occidentale della città.
Il racconto che segue è stato pubblicato il 29 ottobre 2006 sulle pagine de “la Repubblica” (edizione napoletana). Prende il via nel Vasto, popoloso quartiere che guarda a est del capoluogo campano.
E’ il primo di una serie corale – scrittura in prima persona, protagonisti partenopei di varia estrazione e moralità – i cui tasselli vedranno la luce piano piano, col tempo. Si tratta di uno studio sul linguaggio dialettale, sui sistemi di valori dominanti dalle mie parti e sulle trame brevi e immediate.
Leggete e fatemi sapere.


La faccia scoppiata


A Peppe Ferrandino e a Luigi Bernardi


Innanzitutto la cosa più bella sono state le due tirate di cocaina a gratis. Veramente la guerra. Mai visto che uno viene vicino a te e ti dice: tiè, pigliatene quanta ne vuoi tu.
Lo so, lo so che non lo fanno per senza niente, che ti credi? Loro ti vogliono tipo Lavezzi in mezzo al campo di pallone. Ti vogliono scattoso, che devi pensare chiaro. Ma che vuoi? A me è piaciuto e siccome non era stato messo nel conto, per me è stato a gratis.
Io e Gigio siamo scesi da sopra casa di mamma sua tutti eccitati che pareva che dovevamo andare a Licola a ballare. Non ci pensavamo proprio che dentro al marsupio ci avevamo le pistole e che stavamo per andare a fottere l’infamone che ci ha detto Maradona, la persona di fiducia di chi sai tu (hai capito chi, no?). Io mi pensavo che mi cacavo sotto, ma invece è andato tutto come doveva andare.
Ci siamo messi i caschi, siamo saliti sulla Vespa che Mimì si era rubato apposta per noi (si è messo dentro alla sacca una bella carta di duecento euro pure lui, che ti pensi?) e siamo andati per dentro il Vasto a vedere se l’infamone ci stava.
Io, a dire la verità, non lo so l’infamone in che cosa aveva sgarrato. Io so solo che quando la persona capisci-a-me dice che uno è infame, è questione chiusa: deve essere infame per forza. E comunque pure a me l’infamone mi è sempre stato sulla capocchia del pesce: me lo ricordo davanti al suo negozio di chianchiere fino da quando tenevo tre anni. E mano a mano che diventavo grande ha incominciato che mi guardava con una faccia schifata e superbiosa. Quella di chi si crede meglio di te perché ha fatto i soldi mentre tu tieni la famiglia terremotata e il padre rinchiuso dentro a Poggioreale. Quella di chi si crede che puoi entrare dentro al suo negozio da merdaiolo per affogarti un pezzo di lacerto di nascosto e perciò ti tiene mente.
Tienimi mente adesso, lutamma.
Lui se ne stava fermo all’entrata della chianchieria con addosso il camice pieno di macchie sozzose e si stava fumando una sigaretta. Mi ricordo che una volta le bestie squartate le teneva appese pure fuori al magazzino. Poi è iniziato che non le teneva nemmeno dentro ai banchi frigorifero. E se ci entrava un cliente ogni mezz’ora era pure assai. Si vede che prestava i soldi con l’interesse, quella monnezza. E di sicuro teneva qualche intrallazzo con chi non doveva.
Si credeva di essere un padreterno mentre fumava là fuori. Io e Gigio ci siamo fatti due volte il giro col mezzo per vedere se era cosa, gli siamo passati per davanti due o tre volte e lui neppure ci ha guardati. Invece buttava l’occhio sul culo sceso di una mezza baiorda che camminava sul marciapiede. Lui si faceva il film di metterlo là, e intanto glielo stavo per impizzare io in quel posto.
Sono sceso dalla Vespa dietro a un angolo, a dieci metri da dove stava lui e mi sono avviato svelto, rasente rasente al muro. Il casco non me lo sono levato, la pistola invece l’ho tirata fuori e me la sono nascosta dietro alla schiena. Gli sono andato vicino vicino per non sbagliare e gli ho puntato il ferro a manco mezzo braccio dalla testa senza che lui se ne accorgeva nemmeno.
A quel punto però è successa una cosa strana che io penso che era colpa della cocaina tagliata troppo pura. Penso che era tutta immaginazione mia. E’ successo che lui si è girato verso di me e che la faccia non era più la sua. Era la faccia mia. E poi si è cambiata nella faccia di mio padre. E poi di nuovo nella faccia mia.
Sono uscito pazzo dall’arraggia. Che sfaccimma tenevamo da spartire io e mio padre con l’infamone? Mio padre ha dovuto spantecare una vita sana, si è fatto la gabbia per cinque anni e non ha avuto niente. E’ solo finito sotto terra per via di un mammone dentro al fegato. E io non voglio fare la sua fine.
Per levare di mezzo l’infamone, a me e a Gigio hanno dato ottocento euro ciascuno e questi ottocento euro, per me, sono l’inizio di una vita diversa. Perché a Licola a ballare ci voglio andare col macchinone e non coi soldi contati. Perché le belle femmine che ti fanno i servizi di bocca si pigliano solo se gli allunghi la moneta. Perché io voglio essere un personaggio e non uno che puoi buttare quando pare e piace a te.
Tutte queste cose mi sono passate in fronte in un secondo solo. Ho strillato, ho tirato il grilletto, si è sentito il botto e ho visto la faccia mia e di mio padre che scoppiava in una nuvola nera e rossa. Poi ho sentito subito le allucche che venivano da dentro il negozio. Era un guaglione che poteva essere il figlio dell’infamone, ma pure lui teneva la stessa faccia mia: tale e quale, identica. Ho sparato addosso pure a lui, ma non lo so se l’ho pigliato. Forse sì, ma qui non teniamo il televisore e neppure il telefono. Perciò non ti posso dire proprio niente.
Comunque, prima che mi giravo e che mi mettevo a correre, ho buttato un altro paio di palle dentro all’infamone che stava a terra schiumato di sangue. Tutt’attorno a me ci stava il fuggi fuggi, però io mi pareva di tenere l’ovatta dentro alle orecchie. Era tutto come da lontano.
Gigio ha fatto una sgommata dall’altra parte della strada e ha pigliato a suonare il clacson. Quando gli sono salito dietro mi pareva di aver volato. Non vedevo più niente. Davanti a me tenevo solo la faccia mia e di mio padre che scoppiavano. Non quella dell’infamone: quella mia e di mio padre.
Gigio in mezzo al traffico mi pareva Valentino Rossi. Quando siamo arrivati all’appuntamento, in una piazzola sopra a Mater Dei, c’era la macchina che ci aspettava così come eravamo rimasti d’accordo con Maradona. Quando mi sono tolto il casco mi è venuta una cosa di stomaco e mi sono messo a vomitare tutto quello che tenevo nella pancia. Maradona mi ha dato delle mazzate dietro alle spalle e mi diceva che era un fatto normale. Gigio pertramente si fumava una sigaretta. Per fortuna che quando mi sono seduto sul sediolino di dietro stavo già bene. Di mettermi a sorchiare non se ne parlava nemmeno, però sono riuscito a chiudere gli occhi e a non pensare a niente più.
Quello che guidava la macchina ci ha portati da una parte in campagna, in mezzo alle piante di pummarole. Ci stava una casa di coloni deserta. La comanda era quella di stare lì, che dovevamo aspettare tranquilli qualche giorno. Dentro ci abbiamo trovato giusto quello che serviva: una buattella di caffè con la macchinetta, una cascetta di bottiglie d’acqua, due di vino e un poco di roba in scatola. Poi ci stavano due materassi per dormire messi a terra, e sopra al tavolo, le bustine di eroina che avevamo cercato a Maradona prima che andavamo ad ammazzare l’infamone. E ci stavano pure le siringhe. Non si erano scordati di niente.

Ci siamo scarfati una tazza di caffè e poi ci siamo stesi sopra ai materassi, svegli ma senza che parlavamo. Solo noi coi cacchi nostri per il cervello. Poi quando si è fatta una certa ora ci siamo calati la bummazza. Si sentiva che era prima qualità.
Non ti so dire per quanto tempo ho pariato da sveglio e poi quando mi sono addormentato e ho incominciato a fare sogni. Mi ricordo solo che a un certo punto ho visto padre Pio e il diavolo che si prendevano a pugni e paccheri davanti a me e a mia mamma per sapere chi si doveva pigliare il mio spirito e spedirlo o all’inferno o al paradiso. Mamma piangeva e io ridevo perché erano comici mentre si mazziavano. E poi mica ero morto ancora.
Mi sono svegliato che stava il sole di primo mattino (o almeno così mi pareva) che entrava dalla finestra. Gigio stava ancora che dormiva pesante. Io mi sono alzato, sono andato nella latrina che stava nell’altra camera, ho pisciato e ho fatto la cacca. E mentre che stavo là, pensavo che mi ero sognato proprio una stronzata: che i santi non si mettono a perdere tempo con noi, se no stavamo tutti quanti bene e Napoli era un’altra cosa, no? Se vuoi stare bene devi fare da solo e basta.
Quando ho finito, sono andato vicino alla finestra e mi sono appicciato una sigaretta mentre che guardavo fuori. Da lontano si vedevano una sacco di gente negra che raccoglievano le pummarole e si chiamavano coi gridi. Ho pensato che erano dei poveracci e che io invece tra un poco mi compravo il macchinone e me ne uscivo con certe guaglione che non si vedevano nemmeno a Miss Italia.
Poi però per un momento mi è sembrato che giravano tutti quanti la testa dalla parte mia. Ed erano tutti quanti tali e quali a me e a mio padre. Tenevano tutti quanti la faccia mia e quella di mio padre. Ma è stato solo per un momento. Ho pensato che era la polpetta che faceva ancora effetto. Io e mio padre buonanima non abbiamo mai tenuto niente da spartire con quelli. E quando ho finito la sigaretta, me ne sono andato a coricarmi un altro poco. E mi sono scordato di tutto.

3 apr 2007

Il fascista che è in me


Il fascista che è in me non sopporta “Parla con Me”, Serena Dandini, Dario Vergassola e la Banda Osiris

Il fascista che è in me detesta Emir Kusturica e Goran Bregovic.

Il fascista che è in me si tiene a distanza dalle musiche di Vinicio Capossela.

Il fascista che è in me prenderebbe a calci gli zingari adulti che mandano i loro bambini a chiedere la questua con fare supplicante. E prenderebbe a calci anche i bambini.

Il fascista che è in me pensa che una persona perbene non avrebbe nessun timore a essere intercettata telefonicamente o fotografata per strada se non ha nulla da nascondere.

Il fascista che è in me pensa che a comportarti bene, ti tieni lontano da ogni guaio.

Il fascista che è in me pensa che chi non trova lavoro, in realtà non vuole trovarlo.

Il fascista che è in me pensa che la democrazia non dovrebbe consentire la libertà di parola anche agli idioti. E a chi chiede al fascista che è in me: “Chi sono gli idioti?” lui risponde: “Sempre gli altri.”

Il fascista che è in me ha letteralmente adorato il film “300” di Zack Snyder e Frank Miller.

Il fascista che è in me fa il tifo per le forze dell’ordine.

Il fascista che è in me si immedesima nei personaggi di Tom Clancy e quando legge delle macchinazioni della CIA vorrebbe averle concepite lui.

Il fascista che è in me consentirebbe per legge agli insegnanti di tirare sganassoni agli alunni. E di infliggere loro punizioni corporali.

Il fascista che è in me si è convinto che Micheal Crichton nel suo romanzo "Stato di Paura" affermi delle sacrosante verità.

Il fascista che è in me rispetta i codici e teme le sanzioni.

Il fascista che è in me parteggia sia per gli imprenditori che per gli operai.

Il fascista che è in me ritiene che mafiosi e camorristi conclamati dovrebbero essere giudicati sommariamente e quindi giustiziati sulla pubblica piazza con un colpo di pistola alla nuca.

Il fascista che è in me passerebbe spesso e volentieri alle vie di fatto.

Lo tengo a bada il fascista che è in me.
E lui mi fissa guascone dal centro della cella in cui è rinchiuso così come fa Anthony Hopkins con Clarice Starling nella versione cinematografica de “Il Silenzio degli Innocenti”.
Sogna di uscire, ma io non posso consentirlo.
Lo ascolto però.
E la sua voce mi fa capire meglio tante cose.