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15 gen 2014

Lorenzo Mattotti e i luoghi delle fiabe

È – e non da ieri – uno dei più grandi illustratori italiani contemporanei, una artista capace, con le sue linee e i suoi colori, di generare veri e propri universi alternativi in cui l’occhio perde gli usuali punti di riferimento cercando di carpirne di nuovi.

Gli amanti del fumetto ebbero la fortuna di conoscere per la prima volta l’arte di Lorenzo Mattotti all’inizio degli anni Ottanta, quando debuttò col gruppo d’avanguardia Valvoline mettendosi in luce con opere sperimentali come Dottor Nefasto, Il Signor Spartaco e il capolavoro Fuochi. L’inizio fulminante di una carriera luminosa proseguita attraverso la narrativa disegnata (L’uomo alla finestra, con Lilia Ambrosi; Caboto e Il rumore della brina con Jorge Zentner, ecc.), ma soprattutto l’illustrazione di cover (per pubblicazioni come “The New Yorker”, “Vanity Fair”, “Cosmopolitan”, “Le Monde” e “Glamour”), di classici della letteratura (Pinocchio; Jeckyll e Hyde, Einaudi Stile Libero Extra, pp. 72, € 19,00) e cartelloni ufficiali di manifestazioni internazionali (quello per il Festival cinematografico di Cannes del 2000, quello per il Napoli Comicon 2007 e l’ultimo per la sessantatreesima edizione del Festival di Sanremo).

Da sempre attivissimo, dunque, Mattotti ha continuato a vivere momenti di intensa presenza nelle librerie grazie, per esempio, al suo lavoro d’illustrazione per l’adattamento de Il Corvo di Edgar Allan Poe scritto dal compianto Lou Reed (The Raven, Einaudi Stile Libero Extra, pp. 190, € 25,00) o alla ristampa della riduzione a fumetti, realizzata in collaborazione col critico e sceneggiatore Antonio Tettamanti, de Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, edita da Orecchio Acerbo/Coconino Press (pp. 136, cm. 28 x 19,5, € 25,00).

E la letteratura per l’infanzia continua a rappresentare uno degli interessi principali dell’artista bresciano come testimoniano anche i quattro volumetti della Saga dei Pittipotti (€ 6,50 cad.) sceneggiati dal suo amico Jerry Kramski e pubblicati sempre dalla casa editrice romana Orecchio Acerbo.

Oggi la riconosciuta maestria di Mattotti può generare, tuttavia, dei seri problemi di approccio. L’elevato livello qualitativo delle sue illustrazioni è talmente costante da suscitare, talvolta, un senso di saturazione nell’occhio del fruitore. In pratica, Mattotti è talmente eccellente, talmente personale, talmente riconoscibile da correre il rischio di sfociare, più o meno involontariamente, nel manierismo. Ed è come se il “fruitore” dell’opera sapesse già cosa aspettarsi dall’artista, godendo appieno della sua eccezionale bravura tecnica, della sua inalterata inventiva, ma senza trovarsi di fronte a scatti o a guizzi di vera inquietudine, di vera ricerca.

Basta poco, tuttavia, per comprendere come Mattotti continui, in realtà, a fremere continuando a esplorare strade nuove nelle forme visive della comunicazione. Ed è ancora un libro pubblicato da Orecchio Acerbo nel 2009 ad avercene dato un significativo segnale: si tratta della fiaba di Hänsel & Gretel dei fratelli Grimm illustrata attraverso tredici, vertiginose raffigurazioni in bianco e nero (pp. 48, cm. 33,5 x 24,5, € 20,00).

È qui che è tornato a emergere tutto l’estro, tutta la sublime ispirazione del miglior Mattotti che, con stile graffiato ed espressionista, catapulta il lettore nei meandri di una fiaba nera e inquietante, facendolo sperdere idealmente, così come accade ai piccoli protagonisti, in un bosco tenebroso e contorto, tra rami nodosi e ombre terrificanti che sembrano celare ogni genere di insidia.

È straordinario Mattotti quando, per esempio, ci costringere a soffermare lo sguardo sulla casa di Hänsel e Gretel posta sul limitare della foresta, mentre all’orizzonte un crepuscolo bianco attraversato da sottili nubi nere ci induce a immaginare i colori più allarmanti del creato. E si rivela addirittura geniale quando avvolge i due fratellini nelle spire di una vegetazione mostruosa, che sembra ghermirli con un movimento tentacolare, per poi farli addentrare nell’antro demoniaco della strega. Con un effetto texture talmente impressionante che neanche la risaputa, felice conclusione della vicenda riesce a sollevare il lettore da una sensazione di sublime disagio.

Un lavoro potente, dunque, valorizzato dal grande formato del libro e da una qualità di stampa eccellente che pone in evidenza ogni dettaglio grafico, comprese tutte quelle sottili, eccitanti sfumature di grigio (e chi ha avuto modo di ammirare le grandi serigrafie ricavate da questo lavoro sa di cosa stiamo parlando) che in genere le scansioni per la resa su pagina non riescono a restituire.

Hänsel & Gretel, insomma, nell’interpretazione di Mattotti riesce a catturare la parte infantile che alberga ancora in noi ponendola di fronte alle sue paure e ai suoi timori più reconditi. E ha il merito di averci restituito un artista ai suoi massimi livelli creativi.

Non è un caso, quindi, che Mattotti stesso si sia reso conto dell’importanza creativa e vivificatrice di questo percorso, continuando a esplorare con le stesse tecniche grafiche (pennelli e inchiostro su carta, senza schizzi pre-compositivi) la dimensione fiabesca. Il risultato è Oltremai, un vero e proprio volume d’arte, racchiuso in un cofanetto e pubblicato dalle edizioni Logos al prezzo di € 100,00, in cui l’autore scava nell’immaginario stesso da cui provengono le fiabe per coglierne l’essenza, gli archetipi, la fonti che le fanno vivere nei secoli nella memoria collettiva.










4 gen 2014

Elogio dell'anticlimax: Prime Suspect, The Killing, Low Winter Sun, Hannibal

Ricordo che prima di mettermi a seguirne una stagione mi ci volevano un paio di sedute di training autogeno.
Eppure Prime Suspect, la serie televisiva poliziesca trasmessa tra il 1991 e il 2006 dalla britannica ITV e interpretata dal premio Oscar Ellen Mirren (nel ruolo della tormentata ispettrice di polizia Jane Tennison), era qualcosa che alla fine ti lasciava soddisfatto e arricchito, anche se lo svolgimento della vicenda era talmente lento e intricato da farti perdere di vista, in certi casi, l'assunto dal quale aveva preso le mosse.

Si trattava di una precisa cifra stilistica imposta dalla creatrice della serie, la romanziera Lynda La Plante: Prime Suspect era, infatti, un poliziesco procedurale che andava a innestarsi sulla difficile vita privata della protagonista - una donna in carriera costretta dal lavoro a rinunciare a famiglia, maternità e rapporti sociali - trasformandosi in un pezzo di vita che si dipanava quasi in tempo reale davanti agli occhi dello spettatore.

Proprio così: la dote straordinaria di Prime Suspect consisteva nel fatto che le svolte della trama risultavano talmente impalpabili, talmente banali e "fuori fuoco" - a prescindere dall'importanza che potevano avere nella risoluzione del plot - da annientare ogni senso di artificiosità. Gli sceneggiatori non puntavano ai climax e ai colpi di scena tipici delle fiction di puro intrattenimento quanto piuttosto alla resa naturalistica di persone, ambienti, fatti. Un lavoro complicatissimo, antispettacolare, che però alla fine produceva un capolavoro di scrittura e di resa scenica, graziato dal successo di pubblico e abbondantemente citato (perfino nel notevole film parodistico Hot Fuzz).

Prime Suspect - il cui remake americano realizzato nel 2011 per il network NBC si è rivelato un fallimento - costituisce il massimo esempio di procedural drama basato sul ricorso reiterato all'anticlimax. Nessun prodotto televisivo ha mai toccato la cosciente volontà di antispettacolarizzazione presente in questa serie TV prodotta nel Regno Unito. L'unico titolo che ci si è avvicinato è stato Five Days, altro poliziesco procedurale britannico scritto da Gwyneth Hughes e sviluppato dalla BBC in tandem con la HBO. Prodotti statunitensi come The Wire, Deadwood o I Soprano - in cui la consistenza delle trame passava attraverso il setaccio della lenta introspezione psicologica e della ricerca delle situazioni più quotidiane e banali - non si sono mai poste nemmeno per un momento sui binari di Prime Suspect e del suo difficile andamento narcolettico.

Quella dell'anticlimax è un'arte sopraffina, un obiettivo narrativo che passa attraverso la sensibilità e l'abilità costruttiva di sceneggiatori coi controcoglioni e la tenacia di spettatori disposti ad accettare lunghi dialoghi (apparentemente) inconcludenti e ogni (apparente) tempo morto della trama.

Nel 2013, così come avevamo già avuto modo di dire altrove, l'Oscar dell'anticlimax nella fiction TV straniera l'ha vinto senza ombra di dubbio quel mezzo capolavoro noir di Hannibal, graziato da un paio di straordinari episodi basati interamente su disquisizioni filosofiche e atmosfere rarefatte.

Il dramma investigativo The Killing ha invece - da questo punto di vista -  "tradito" alfine il suo spirito iniziale. Versione statunitense della danese Forbrydelsen, questa serie - sviluppata dalla sceneggiatrice canadese Veena Sud e dalla Fox Television per il network AMC - nel corso delle prime due stagioni aveva visto due poliziotti problematici, Sarah Linden e Stephen Holder, alle prese col misterioso omicidio della giovanissima Rosie Larsen (secondo un mood che intendeva volutamente riallacciarsi al "caso Laura Palmer" della leggendaria Twin Peaks).

In The Killing le svolte che sembravano portare alla risoluzione del delitto erano innumerevoli, ma sfociavano puntualmente in vicoli bui e ciechi. Nel frattempo atmosfere cupe e dilemmi esistenzialisti permeavano lo schermo stringendo lo spettatore in un abbraccio freddo e inquieto fino a una risoluzione dell'enigma che faceva un po' a pugni con le ventisei puntate che ci erano volute per venirne a capo. Ventisei puntate in cui i climax essenziali - cioè, così propriamente definibili - si potevano contare sulle dita di una mano.

Si è dovuto attendere, di recente, l'ottavo episodio della terza stagione - incentrata su una storyline completamente nuova - per assistere a uno straccio di inseguimento con ostaggio annesso, mentre nella nona puntata - diretta, non a caso, con mano inconfondibile, dal Jonathan Demme de Il silenzio degli innocenti - si sono visti più colpi di scena che nei trentatre capitoli precedenti messi insieme.

Nondimeno The Killing - la cui quarta stagione è stata opzionata dal sempre più agguerrito canale internettiano Netflix - resta un serie TV affascinante che ti restituisce intatta la sensazione fisica di trovarti in una piovosa e livida Seattle assieme a personaggi carichi di una dolorosa umanità, nei quali è impossibile non riconoscersi.

E guarda un po', di matrice europea è pure Low Winter Sun, serie americana ricavata anch'essa da un format europeo (l'omonima miniserie britannica trasmessa da Channel 4).e interpretata, in entrambi i casi, dal medesimo attore protagonista: il Mark Strong visto in Kick-Ass e nello Sherlock Holmes di Guy Ritchie.

Low Winter Sun - andata in onda, così come The Killing, sotto l'egida del marchio AMC - è un noir spietato ambientato nella disastrata Detroit contemporanea, quella che si è trasformata anche nel mondo reale nello scenario apocalittico del primo Robocop e nell'avamposto dell'Inferno de Il Corvo (un tragico fattore che ha permesso alla produzione di usufruire di sette milioni e mezzo di incentivi finanziari dallo Stato del Michigan per la creazione di nuovi posti di lavoro e il rilancio dell'indotto cittadino).
E' vero che il primo, potentissimo climax di Low Winter Sun lo si trova proprio all'inizio dell'episodio pilota - quando i due poliziotti protagonisti si ritrovano nella necessità di dover eliminare brutalmente un collega corrotto - ma è altrettanto vero che per poterne assistere a un altro paio di una certa consistenza bisogna attendere l'ottava puntata (su un totale di dieci).

Tuttavia pure in questo caso, si va, da spettatori. sotto l'effetto di una specie di ipnosi che ti proietta in un mondo alieno e privo di speranza. Un mondo di anticlimax che assomigliano a ceneri roventi che fanno ardere le parti più tenebrose dell'anima di chi vi assiste..

29 dic 2013

"Hannibal": da "Le origini del male" al serial TV

"Hannibal Lecter è un franchise di successo: perciò, o mi dai un nuovo testo adesso oppure lo faccio scrivere a qualcun altro": Questo è quanto dice Dino De Laurentiis a Thomas Harris all'indomani del buon riscontro ottenuto nel 2002 dalla trasposizione cinematografica di Red Dragon diretta da Brett Ratner.
Nei suoi (frequenti) momenti di crisi creativa, lo scrittore è stato accolto come un pascià dal produttore, che l'ha ospitato in Italia, nella sua lussuosa villa sull'Isola delle Sirene, coccolandolo con piatti a base di insalata caprese, tuffi davanti ai Faraglioni.e rilassanti gite in barca tra la Grotta Azzurra e la Grotta del Corallo.
A Harris risulta perciò difficile dire di no al suo amico/mecenate, accettando di scrivere contemporaneamente sia il romanzo che la sceneggiatura cinematografica (fatto, quest'ultimo, per lui inedito) di Hannibal Rising, in cui si narra dell'adolescenza di Hannibal Lecter e delle vicende che l'hanno portato a a diventare ciò che è.

Il romanzo, ribattezzato in italiano Hannibal Lecter: Le origini del male, viene pubblicato nel 2006, rivelandosi un disastro. E non tanto per il plot poco coinvolgente - una specie di Conte di Montecristo rivisitato in salsa pulp - ma per una cifra stilistica sciatta, priva di mordente, lontanissima dalle attenzioni formali e linguistiche che Harris aveva posto nei romanzi precedenti. Il mistero di questo sfacelo è evidente fin da subito: lo scrittore ha di fatto lavorato prima sulla sceneggiatura del film che sul libro e quindi l'opera letteraria non è altro che il frettoloso, maldestro romanzamento di un copione cineamatografico.

Ed è forse per questo che il film, lanciato nel 2007, risulta assai migliore del romanzo. Finanziato da De Laurentiis con la compartecipazione di Tarak Ben Ammar, produttore e distributore tunisino che diverrà in seguito famoso ai più per i suoi contorti rapporti d'affari con Silvio Berlusconi, Hannibal Lecter: Le origini del male si avvale della regia del britannico Peter Webber che già aveva firmato il non esaltante La ragazza dall'orecchino di perla, biopic sulla figura del pittore fiammingo Johannes Vermeer. Proprio quel Vermeer che, nei romanzi di Harris, viene indicato come l'artista preferito del dottor Lecter.e, per osmosi, anche di Barney, l'infermiere di colore che aveva accudito il Cannibale durante i suoi anni di prigionia nel manicomio criminale di Baltimora. Quel Vermeer di cui Barney - divenuto ricco dopo aver venduto a caro prezzo a un danaroso collezionista la maschera di sicurezza indossata dal Cannibale nel corso dei suoi spostamenti clinici - intende vedere dal vivo tutti i quadri sparsi per il mondo, giungendo alfine a Buenos Aires, città da cui scappa in preda al terrore nel momento in cui intravede da lontano il dottor Lector mentre passeggia con la sua amante, Clarice Starling (così come viene narrato nel romanzo Hannibal).

Il ruolo del giovane Hannibal viene, invece, affidato al magnetico Gaspard Ulliel, attore francese già insignito di varie onorificenze in madrepatria e in seguito modello e testimonial per alcuni tra i più importanti marchi di moda transalpini, da Longchamps a Chanel. Al suo fianco, nella parte della giapponese Lady Murasaki, zia acquisita e mentore di Lector, viene posta la star cinese Gong Li.

Hannibal: Le origini del male non è brutto - ripeto: rispetto al romanzo non è da disprezzare - ma nulla aggiunge e nulla toglie alla figura di Lector. L'unica rivelazione, nemmeno tanto sorprendente e, anzi, abbastanza telefonata, è che anche il futuro psichiatra si era nutrito del corpo di sua sorella Micha quando - prigioniero della morsa dell'inverno russo e in assenza di viveri - il manipolo di sbandati filonazisti, da cui i due bambini erano stati fatti prigionieri, l'aveva smembrata per cibarsene.

Per il resto è una banale pellicola, ben illuminata (da Ben Davis, futuro direttore della fotografia di movie-comics come Kick-Ass, Tamara Drewe, Guardians of the Galaxy e The Avengers: Age of Ultron) e ben montata (dal premio Oscar Pietro Scalia, già autore dell'editing di Hannibal), ma che solo i fan hardcore possono in parte apprezzare, mentre considerata a sé stante, appare quasi priva di finalità: né thriller, né noir, né horror, quanto piuttosto una via di mezzo tra una revenge story e un percorso di formazione alla rovescia privo di una vera conclusione.
In ogni caso il film si connota subito come un clamoroso fiasco: la critica mondiale lo massacra e l'investimento di cinquanta milioni di dollari produce sostanzialmente un misero pareggio.

Hannibal: Le origini del male è l'ultima produzione cinematografica - se si eccettua la trascurabile commediola giovanilistica Decameron Pie - di Dino De Laurentiis che morirà nel 2010 alla veneranda età di 91 anni, lasciando le redini della compagnia nelle salde e capaci mani della moglie Martha.

Ma nel 2011 la produttrice Katie O'Connell incomincia a sviluppare per il network statunitense NBC una serie televisiva dedicata all'oscuro antieroe di Thomas Harris e ambientata in un'epoca immediatamente precedente agli eventi descritti in Red Dragon. La Connell trova nell'amico Bryan Fuller (già scrittore e produttore di Heroes, altra apprezzata serie TV targata NBC) lo showrunner ideale per dare il "la" al progetto. E la forza della sceneggiatura che Fuller stende per l'eventuale primo episodio del serial, è tale che la dirigenza del network concede subito l'imprimatur - senza nemmeno attendere gli screening di un pilot -   per una prima stagione di tredici episodi.

Personalmente, fin dal momento in cui incappo nel trailer della serie resto impressionato. Il casting è semplicemente perfetto: l'inglese Hugh Dancy è il Will Graham definitivo, nerd e allucinato esattamente come l'aveva descritto Thomas Harris nel 1981 sulle pagine di Red Dragon. E l'Hannibal Lecter incarnato dall'attore danese Mads Mikkelsen... be', è la perfezione assoluta: l'hidalgo spagnolo, l'algido dandy, imperscrutabile, alto e longilineo così come appariva nei romanzi originali.

Guardo il trailer della serie TV di Hannibal e già so - senza averne visto nemmeno un episodio - che finalmente, dopo un quarto di secolo, potrò ritrovare intatti e senza manipolazioni deformanti i personaggi e le atmosfere che hanno segnato la mia giovinezza.


Le conferme della prima impressione poi fioccano: fin dal pilot è chiaro che il mood visivo e concettuale della serie si rifà tanto all'allucinante poetica di David Lynch che alle glaciali inquadrature di Stanley Kubrick (riprese geometricamente calcolate, ambienti freddi e razionali). E alla riuscita di questa altissima vena citazionistica e postmoderna concorrono fior di registi: David Slade, autore dell'ottimo horror movie 30 Giorni di Buio; Michael Rymer, colonna di Battlestar Galactica e American Horror Story; Peter Medak, artefice di gioielli cinematografici come The Krays e Romeo is bleeding; Guillermo Navarro, direttore della fotografia di Guillermo Del Toro e Robert Rodriguez; James Foley, che negli anni Ottanta aveva diretto il bellissimo noir A distanza ravvicinata; Tim Hunter, firma di riferimento di alcune tra le più importanti serie TV americane, e John Dahl, famoso sia per il noir di culto L'ultima seduzione, sia per la regia di serial come Dexter, True Blood, Justified, Homeland e Californication.
Insomma, un pedigree artistico che fin dall'inizio appare impressionante.

Hannibal si incanala subito nella direzione auspicata: il Will Graham di Hugh Dancy fa dimenticare finalmente quello interpretato in Manhunter: Frammenti di un omicidio da William Petersen, dando vita a una recitazione tragica e convulsa. Il Lecter di Mikkelsen, dal canto suo, torna a essere il torbido esploratore di abissi psicologici e manipolatore di anime che nei film si era solamente intravisto. Non l'incarnazione del male, ma una specie di extraterrestre amorale che guarda alla vita come a un terribile esperimento e che ama cucinare gli esseri umani per assimilarli e saggiarne le possibilità di trasformazione.

Fuller, in Hannibal, riesce nell'impresa di tradurre in azioni, parole, atmosfere e immagini tutta l'angoscia e il nichilismo che pervadevano il corpus letterario originale di Thomas Harris. Riesce a catturarne tutto: la violenza surreale, l'immaginario grottesco e sopra le righe dei corpi maciullati e rimodellati come se fossero opere d'arte; la morbosità insita nell'anima di ogni personaggio principale della trama; le dinamiche relazionali sfaccettate, complesse, spesso indecifrabili.

Hannibal è un serial dolente, plumbeo - e le desolate location canadesi accentuano il peso della cappa esistenzialista che grava sul racconto - in cui a lunghi momenti di riflessione filosofica e psicologica, con dialoghi in punta di fioretto e silenzi che sfiorano la narcolessia, fanno da contrappunto climax imprevedibili ed esplosivi.

Fuller trova il modo di citare in continuazione battute e situazioni tratte dalle opere di Harris, riuscendo sempre a infondervi nuova linfa. Tutto è funzionale, tutto è nuovo nel serial di Hannibal: il giornalista arrivista Freddie Lounds viene trasformato in una ricorrente figura femminile che serve a riequilibrare il parco dei personaggi, troppo spostato sul genere maschile; Jack Crawford - il capo del Dipartimento di Scienze comportamentali dell'FBI - non solo diventa un afroamericano interpretato da Lawrence Fishburne, ma gli viene restituita l'aura di ambiguità che lo circondava nei romanzi. Compaiono per la prima volta characters ai quali nei testi letterari si era fatto solo un rapido cenno (come la dottoressa Alana Bloom, amica e confidente di Will Graham, o Phyllis Crawford, moglie di Jack Crawford) o ideati per l'occasione (come Bedelia Du Maurier, psicologa e amica di Hannibal Lecter, interpretata da un'intensa Gillian Anderson).

Il gioco dei rimandi è spesso sofisticatissimo: Jack Crawford - prima ancora dell'avvento di Clarice Starling - incarica una giovanissima allieva dell'FBI, Miriam Lass, di indagare sui delitti compiuti da un dottor Lecter ancora insospettabile. E quando la ragazza intuisce il coinvolgimento dello psichiatra - anticipando, con le stesse, identiche modalità, le future scoperte di Will Graham - questi la uccide occultandone il cadavere. Un avvenimento che consente a Lecter di sondare le reazioni di Jack Crawford, portandone in luce le patologiche debolezze e una sostanziale schizofrenia d'animo. Debolezze e schizofrenia che successivamente lo condurranno a cercare un'astrusa e inammissibile forma di riscatto attraverso il reclutamento della protagonista de Il silenzio degli innocenti.

Bella anche la parte che coinvolge la moglie di Crawford. Di Phyllis, nei romanzi di Harris, si hanno notizie indirette. Si sa che è affetta da un male incurabile e quando muore, un Lector latitante si premura di far pervenire una sentita lettera di condoglianze all'ufficiale dell'FBI. Nella serie TV, la donna, già ammalata, è in analisi da Lecter e gli rivela di avere una relazione extraconiugale (di cui il marito probabilmente è a conoscenza, ma che accetta passivamente per motivi imperscrutabili).

Ancora: tra i pazienti di Lecter figura l'insulso Franklin Froideveaux che intrattiene un ambiguo rapporto d'amicizia con Tobias Budge, un serial killer in incognito. Due personaggi attraverso i quali Fuller ricrea la morbosa relazione che legava Benjamin Raspail (un frequentatore dello studio di Lecter di cui Clarice Starling ritrova in un deposito abbandonato la testa mozzata sotto formalina) e lo psicopatico Buffalo Bill/Jamie Gumb, snodo fondamentale, sebbene solo accennato, de Il silenzio degli innocenti.

La serie TV di Hannibal - tra i cui produttori figura anche Martha De Laurentiis, già coinvolta dal marito nella realizzazione delle trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Harris dirette da Ridley Scott, Brett Ratner e Peter Webber - si può insomma considerare come la vera serie rivelazione dell'appena trascorso 2013.
Un prodotto che riesce a far tesoro di trent'anni di esperienze narrative e cinematografiche rielaborandole e proiettandole verso il futuro. Ai primi tredici episodi di Hannibal, infatti, faranno seguito, nelle intenzioni degli autori, altre sei stagioni: due ancora basate su materiali inediti, la quarta relativa agli eventi di Red Dragon, la quinta incentrata su Il silenzio degli innocenti, la sesta sul plot di Hannibal e l'ultima su una storyline originale che dovrebbe andare a indagare quanto accaduto dopo la fuga di Lecter in Argentina, assieme a Clarice Starling.

Hannibal Lecter è tornato, allora. E, per fortuna, nel migliore dei modi.

(5 - fine)

27 dic 2013

Il "Red Dragon" di Brett Ratner

"Hannibal Lecter piace agli spettatori perché uccide solo quei personaggi che il pubblico desidera vedere morti". E' questa, in soldoni, l'illuminata visione che Dino De Laurentiis ha del serial killer ideato da Thomas Harris: quella di un amicone di famiglia che viene a togliere definitivamente di mezzo la gente che ti sta antipatica. Basterebbe soltanto questa affermazione del produttore originario di Torre Annunziata - e dalla quale un passivo, colpevole, connivente Harris si è sempre guardato bene dal prendere le distanze - a rendere indigeribili le opere cinematografiche che, a partire dall'Hannibal di Ridley Scott in poi, vedono come protagonista il dottor Lecter.

E' il 2002 e De Laurentiis, dopo essersi portato a casa il successo di Hannibal, ha intenzione di battere il ferro finché è caldo rimettendo mano a quello che si era rivelato come uno dei più grossi fallimenti nella sua lunga carriera di produttore: la trasposizione filmica di Red Dragon.

E' risaputo che Manhunter - Frammenti di un omicidio, primo tentativo di trasformare in immagini il romanzo di Harris, aveva incassato, nel 1986, poco più di otto milioni e mezzo di dollari a fronte dei quindici investiti. Un fatto sul quale De Laurentiis aveva continuato per anni a rimuginare, e in particolare dopo la trionfale accoglienza ricevuta da Il silenzio degli innocenti.
Nonostante il film di Michael Mann avesse conseguito nel tempo ampi riconoscimenti da parte della critica e degli spettatori, guadagnandosi una specie di seconda vita sul mercato dell'home video, il tycoon era giunto a rinnegarlo su tutta la linea,  classificandolo quasi come l'operato di un gruppo di incompetenti.
Ma adesso che i diritti dei romanzi di Harris sono tornati - dopo la parentesi Orion Pictures - saldamente nelle sue mani, il magnate ritiene che sia giunto il momento, a distanza di sedici anni, di esigere il dovuto riscatto. L'obiettivo è quello di ricreare la magica alchimia de Il silenzio degli innocenti, alla ricerca di un back to the basics che possa riproiettare gli spettatori nelle atmosfere che li avevano ammaliati dodici anni prima. Non più la fredda, chirurgica crudezza di Hannibal, quindi, ma un'opera di nuovo incentrata sui rapporti psicologici tra i personaggi e sull'equilibrio tra thriller e dramma umano.

E' per questo motivo che viene richiamato in gioco lo sceneggiatore Ted Tally che con lo script de Il silenzio degli innocenti aveva vinto tutti i premi di categoria possibili e immaginabili, ma che aveva rifiutato di scrivere l'adattamento di Hannibal, considerando il romanzo disgustoso.

Anche il cast degli attori si rivela di prima grandezza: l'allora lanciatissimo e pluripremiato Edward Norton nella parte del profiler Will Graham; il carismatico Ralph Fiennes in quella del serial killer Francis Dolarhyde; Harvey Keitel in quella di Jack Crawford; Philip Seymour Hoffman - reduce dai successi di Magnolia, Il talento di mr. Ripley e Almost Famous - in quella del bieco giornalista Freddy Lounds; Emily Watson - che nel corso del lustro precedente aveva fatto incetta di premi e nomination - nei panni della sviluppatrice cieca Reba McClane; Mary-Louise Parker - che tre anni prima aveva vinto un Genie Award, tributato canadese alle migliori interpreti femminili - in quelli di Molly, moglie di Will Graham.
Tra gli attori torna inevitabilmente pure Anthony Hopkins nella parte di Hannibal Lecter, mentre è quasi sorprendente l'arruolamento dell'italiano Dante Spinotti in qualità di direttore della fotografia. Sorprendente perché il film Red Dragon è a tutti gli effetti un remake di Manhunter, opera di cui Spinotti era stato a suo tempo il formidabile curatore delle luci e dei colori.

Per la regia viene ingaggiato Brett Ratner, trentenne regista della Florida che si era messo in mostra coi polizieschi d'azione della serie cinematografica Rush Hour (quelli interpretati da Jackie Chan e Chris Tucker) e con vari videoclip musicali di Mariah Carey, Wu-Tang Clan, P. Diddy e Madonna.


Per finire, la soundtrack viene affidata a Danny Elfman, che dal 1989 - dall'epoca, cioè, del primo Batman di Tim Burton - viene puntualmente chiamato a comporre le partiture di alcuni tra i più importanti blockbuster statunitensi (conseguendo svariate candidature agli Oscar e ai Grammy Awards).

Rad Dragon nasce, insomma, con tutte le caratteristiche di un mash-up tra Manhunter e Il silenzio degli innocenti attraverso il quale De Laurentiis intende riportare il mito di Hannibal Lecter ai fasti degli anni Ottanta.
I problemi, tuttavia, sorgono proprio a partire dalla ambizioni: Red Dragon aspira a diventare un memorabile instant classic di cui dovranno serbare memoria le generazioni future, mentre invece si rivela un film normalissimo con le caratteristiche di un compitino ben svolto, ma privo di particolari picchi visivi o di sequenze da cineteca. Tutto è clichè, tutto è già trito in Red Dregon: l'estetica e gli assiomi su cui si basa sono stati masticati, digeriti e metabolizzati all'interno di dozzine di altri prodotti cinematografici e televisivi. Ci sarebbe dovuta essere una mano più visionaria, l'elaborazione di progetto basato su parametri inediti per pervenire a un risultato degno di un qualche ricordo. Invece non c'è una sola immagine che resti attaccata al cuore o alla mente.

L'unica prova attoriale degna di nota è quella di Ralph Fiennes, che riesce a infondere nel suo Francis Dolarhyde delle vibrazioni differenti, più ampie, rispetto a quello interpretato da Tom Noonan in Manhunter. Ma il ruolo dell'attore britannico è soffocato dall'impianto generale del film e dalle sciape performance dei suoi colleghi: il sessantacinquenne Anthony Hopkins, rimesso in parziale forma da una superdieta, mantiene - così come la trama originariamente prevedeva - un ruolo dietro le quinte e sotto le righe (per mostrarlo in azione Ted Tally deve partorire l'inutile flashback iniziale in cui il dottor Lecter, poco prima della sua cattura da parte della polizia, pugnala Will Graham ). E Edward Norton - che pure tenta di riallacciarsi alla figura di Graham così come emergeva dalle pagine del romanzo - non è né carne né pesce: non possiede lo sguardo allucinato e la forza nervosa di William Petersen (che in TV è nel frattempo arrivato alla seconda stagione di C.S.I., riscuotendo finalmente un enorme, meritato successo personale) e nemmeno le caratteristiche del nerd paranoico e tormentato così come originariamente concepito da Harris. Dà vita a un personaggio triste e ordinario che non comunica spessore o pathos.

Ma laddove la pellicola fallisce miseramente, diventando perfino immorale, è nella compartecipazione, nella connivenza che tenta di instaurare tra la figura dell'assassino/degli assassini e lo spettatore.
E' vero che, come si diceva all'inizio, De Laurentiis (e anche Hopkins assieme a lui) pensa che Hannibal Lecter uccida quelli che "stanno antipatici" al pubblico. Ma all'interno del Red Dragon di Ratner - in cui Lecter è di fatto confinato nella cella di un carcere psichiatrico - si fa di tutto per tratteggiare preventivamente in maniera negativa chiunque venga ucciso in scena da Dolarhyde: non solo il giornalista arrivista e privo di scrupoli Freddie Lounds, quindi, ma anche Ralph Mandy, collega di Reba McClane, che originariamente era colpevole soltanto di frequentare senza secondi fini la ragazza cieca e che adesso, invece, viene rappresentato dall'attore Frank Wahley come un torbido scassacazzo con velleità da stalker. Giusto per rendere gradevole e accettabile al pubblico la sua morte.

L'inconsapevole e incosciente filosofia criminale che a questo punto investe inevitabilmente il film rende inutile tutto il resto. Gli spettatori arrivano a parteggiare per un maniaco sterminafamiglie: questo è quanto. Persino il tentativo di ripristinare il finale originale del romanzo, a differenza di quanto fatto da Michael Mann in Manhunter, sfocia in un banale colpo di scena dell'ultima ora che nulla ha a che fare con la deriva oscura e nichilista presente nel romanzo di Harris.

In ogni caso, il successo riscosso da Red Dragon consente a De Laurentiis di triplicare il capitale investito per la sua realizzazione. Ed è a questo punto che il produttore chiede all'amico Thomas Harris di impegnarsi nella stesura di un nuovo romanzo che abbia come protagonista Hannibal Lecter...

(4 - continua qui)

26 dic 2013

"Hannibal": il romanzo e il film

Tra la prima edizione de Il silenzio degli innocenti e l'uscita in libreria di Hannibal, terzo atto della saga di Thomas Harris dedicata al dottor Hannibal "il Cannibale" Lecter, intercorre più di un decennio.
Harris è uno romanziere lentissimo che - per sua stessa affermazione - considera la scrittura come un'esperienza indicibilmente faticosa. Tra Black Sunday, la sua opera prima, e Red Dragon trascorrono sei anni; tra quest'ultimo e Il silenzio degli innocenti, sette.

Negli anni Novanta, Hannibal Lecter ha assunto lo status di nuovo modello di villain, di "uomo nero" di fine millennio. La pellicola diretta da Jonathan Demme e interpretata da Jodie Foster e Anthony Hopkins si è trasformata in un cult movie planetario intorno al quale sono sorti dibattiti di ogni tipo. Sulla scia del successo riscosso dal Cannibale di Harris, nella letteratura d'intrattenimento e nel cinema di cassetta è sorto un florilegio di serial killer - tanto diabolici e geniali quanto pretestuosi e bidimensionali - pronti a soddisfare le brame di una platea affamata (è proprio il caso di dirlo) di macabre e spettacolari nefandezze.

In questo contesto, l'assenza di un nuovo romanzo di Harris pesa. Gli appassionati e il pubblico di massa sperano in un terzo atto della saga di Hannibal, ma gli anni passano e la realizzazione di un nuovo libro corre il rischio di arrivare fuori tempo massimo rispetto ai frenetici mutamenti che interessano gli scenari sociali e culturali dell'Occidente.

Dalle voci che di tanto in tanto trapelano, si ha notizia di un Thomas Harris arenatosi senza rimedio nella stesura del manoscritto. E le news che riferiscono di un Dino De Laurentiis - tycoon cinematografico che aveva prodotto Manhunter: Frammenti di un omicidio - impegnato a stimolare la vena creativa del romanziere ospitandolo nella sua villa di Capri e coccolandolo con piatti a base di insalate, pomodori di Sorrento e mozzarelle di bufala, non lascia presagire nulla di buono.

De Laurentiis era rimasto scottato dall'insuccesso di Manhunter - film che oggi viene considerato come un gioiello ineguagliabile - e aveva ceduto ben volentieri, a titolo gratuito, i diritti per la trasposizione de Il silenzio degli innocenti alla Orion Pictures, casa di produzione che dopo i fasti degli anni Ottanta si era ritrovata in difficoltà economiche. Inevitabile che i trionfi ottenuti dal film di Demme (cinque Premi Oscar; 400 milioni di dollari raccolti in tutto il mondo tra incassi nelle sale e vendita di videocassette) avessero stimolato gli appetiti del produttore, pronto a cogliere tutti i benefici connessi a un atteso sequel.

In ogni caso, dopo un'attesa spasmodica - ulteriori rumors riferivano di un Thomas Harris impegnato addirittura a seguire in prima persona le sedute giudiziarie relative al processo del Mostro di Firenze - Hannibal vede alfine la luce.

Il giornalista Corrado Augias è tra i primi a riferire di un incipit del romanzo assolutamente spettacolare che vede Clarice Starling impegnata in un conflitto a fuoco con una spietata e terrificante capo-gang sieropositiva. Niccolò Ammanniti lo loda a sua volta, mentre, al contrario, il collettivo Wu Ming lo fa a pezzi contestandolo in tutto, dallo spessore narrativo e stilistico all'efficacia della traduzione in lingua italiana.

Quando il tomo mi giunge tra le mani, mi coglie il sacro terrore che le esigenze commerciali abbiano devastato a priori il nuovo romanzo di Harris: la copertina dell'edizione italiana ripropone in maniera quasi pacchiana la museruola di sicurezza che aveva contribuito a forgiare la fortuna iconografica di Lecter e il titolo - Hannibal - rappresenta una scelta troppo furba e poco originale rispetto a quella inizialmente proposta dallo scrittore ma rigettata dall'editore americano (il suggestivo, anche se di sicuro meno immediato, The morbidity of the soul). Oltretutto c'è il fatto che la prima parte del romanzo è ambientata a Firenze. Ed è noto che gli scrittori americani - anche i migliori - non sono esenti da semplificazioni e luoghi comuni quando si ritrovano a tratteggiare città e costumi europei.

E' il 1999, ho trent'anni e il mio mondo è cambiato. Ho iniziato da pochissimi mesi a insegnare; ho scritto due libri che stanno per riscuotere ottime recensioni; non sono un adulto, ma non posso neanche più rivestire i panni del ragazzino; ho una relazione stabile, ma non so ancora come voglio gestire il mio futuro. Più o meno inconsciamente rifiuto i progetti, allontano le responsabilità.

Hannibal disattende ogni aspettativa. Se volessimo azzardare dei paragoni, potremmo dire che mentre Red Dragon e Il silenzio degli innocenti erano delle opere potenti e manieristiche basate su un perfetto equilibrio di elementi polizieschi e noir tenuti insieme da atmosfere tipiche dei thriller psicologici, Hannibal è invece un noir barocco, pieno di diramazioni e punti focali, attraversato da ampie venature orrorifiche e situazioni da tragedia shakespeariana.

Ma se nel romanzo il dottor Lecter fa, in fondo, ciò che il pubblico da lui si aspetta, il pugno nello stomaco lo infligge Clarice Starling. Dal punto di vista narrativo sono trascorsi sette anni dagli eventi descritti ne Il silenzio degli innocenti e la giovane allieva dell'FBI si è trasformata in una donna amareggiata e priva di sbocchi professionali, una persona di talento il cui primo, prematuro successo è stato gettato nel dimenticatoio e per la quale le prospettive di carriera appaiono tarpate da giochi politici e burocratici. Una persona destinata a essere fagocitata (ecco "il morbo dell'anima") dalla complessa tela seduttiva di Lecter. Impossibile non riconoscersi in lei, allo stesso modo in cui è impossibile non provare una fitta al cuore ripensando a come il personaggio apparisse dieci anni prima, a quella ragazza che conservava ancora in fondo al cuore l'immagine di un agnellino destinato al macello. Un agnellino che lei aveva cercato di salvare dalla mattanza.

Hannibal è un romanzo rutilante, pieno di idee brillanti e di svolte macabre, di violenza e di atmosfere stranianti. Quando finisco di leggerlo non so se mi è piaciuto davvero, anche perché non sono più il ventenne che era rimasto stregato da Red Dragon e da Il silenzio degli innocenti. Quel che so è che si tratta di un romanzo nel quale il mio io si rispecchia appieno. Un io in fase di transizione.

A distanza di un anno e mezzo dalla pubblicazione di Hannibal, il sogno di De Laurentiis si trasforma in realtà: l'uscita nei cinema della trasposizione cinematografica del romanzo, diretta da Ridley Scott, si rivela esattamente il successo che il tycoon si aspettava.

Eppure il film di Scott incomincia a svelare l'inghippo: è evidente che Hannibal Lecter non è più l'affascinante creatura di un romanziere di talento, ma una sorta di maschera popolare che l'impresario De Laurentiis ha intenzione di trasformare in un franchise volto a saziare il gusto dozzinale di un pubblico volgare e pacchiano.

Scott accetta di girare il film a ridosso del trionfo de Il Gladiatore (e quando De Laurentiis gli fa cenno per la prima volta al titolo in questione, il regista pensa per alcuni momenti che il produttore abbia intenzione di presentargli il progetto di un kolossal storiografico incentrato sull'omonimo generale cartaginese). Jonathan Demme, che con Il silenzio degli innocenti aveva vinto un Oscar, aveva rifiutato di girare il sequel, ritenendo il nuovo plot lontano dalle sue corde. Anche Jodie Foster si era tirata indietro, probabilmente non ritrovandosi più nella figura di Clarice Starling così come emergeva dal nuovo romanzo di Harris.
L'unico a rinnovare il contratto è Anthony Hopkins che al dottor Lecter deve l'esplosivo picco di una carriera cinematografica che prima de Il silenzio degli innocenti era stata costante e più che discreta, ma non eccezionale. Ed è lui a proporre Julianne Moore, sua amica, bellissima e rivelatasi ottima attrice in diverse occasioni, per il ruolo dell'agente federale.

L'Hannibal cinematografico regge assai bene nel primo tempo. La Firenze rappresentata da Scott e dal fotografo John Mathieson è una bolgia infernale riemersa dalla medievale Età dei Comuni, una città sospesa tra Dante Alighieri e la Los Angeles futuristica di Blade Runner. Pure il montaggio del premio Oscar Pietro Scalia infonde ritmo alla storia. E al momento dell'intervallo si ha quasi l'impressione che il compito possa essere portato a casa senza troppi demeriti.

Ma è pur vero che Hopkins non è più quello de Il silenzio degli innocenti: è invecchiato, si è imbolsito, fa sfoggio di una pancetta da anziano in pensione. Il suo aspetto fisico differisce totalmente da quello del dottor Lecter letterario. Se nella pellicola di Demme il suo recitare rinchiuso in una gabbia, solo con gli occhi, inquadrato in una fissità quasi ieratica, gli forniva uno status di icona, il nuovo dinamismo a cui è chiamato in Hannibal lo rende a tratti impacciato e ridicolo.
E alla povera Julianne Moore non va meglio, intrappolata in un ruolo che nel romanzo era tutto psicologico e che le esigenze cinematografiche hanno depotenziato, reso informe, banalizzato.

E infatti il secondo tempo è una débacle su tutta la linea. Gli sceneggiatori - tra cui figura anche David Mamet, non l'ultimo arrivato - non solo rinunciano a un paio di personaggi chiave del romanzo, ma resettano completamente il finale originale, elaborando un pastrocchio che oltre a risultare privo di senso impone un mood consolatorio lontanissimo dalla poetica di Harris (comunque mai restio ad accettare qualsiasi manipolazione esterna delle sue trame).


Hannibal si rivela indubbiamente un successo, anche se la critica e una parte del pubblico intuiscono che sono diverse le cose che non tornano.

La strizzata d'occhio che il dottor Lecter rivolge agli spettatori poco prima dei titoli di coda è una cafonata inarrivabile che fa assomigliare il Cannibale allo sfigato sovrintendente Charles Dreyfus del ciclo filmico de La Pantera Rosa. Ed è, oltre che fuori luogo, rivelatoria di quanta distanza intercorra tra l'Hannibal dei romanzi, di Manhunter e de Il silenzio degli innocenti di Demme da quello finito nelle avide grinfie di De Laurentiis.

Non solo: ma tutto quel carico di violenza che nel romanzo Hannibal appariva grottesco e surreale, privo di connotati realistici, quasi ineffabile, nel film si tramuta in una festa del gore talora solo disgustosa, talora attraversata da una malriuscita vena ironica (per esempio, la sequenza in cui il dottore apre il cranio dell'agente Paul Krendler, ancora vivo e cosciente, per cucinarne il cervello, risulta tanto tragica e onirica nel libro, quanto brutalmente spettacolare e voyeuristica su celluloide).

Insomma, con l'Hannibal di Ridley Scott e Dino De Laurentiis sembra davvero chiudersi malamente un'epoca. Ma è pur vero che al peggio non c'è mai limite.
E infatti...

(3 - continua qui)